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Non è un IA per giovani

 

L’allarme lo lancia Aneesh Raman, chief economic opportunity officer di LinkedIn, con una lettera pubblicata sul New York Times. Il titolo non lascia spazio a equivoci: “L’IA rischia di spazzare via i lavori per i giovani”. Ma la questione è più sottile: non è solo questione di perdere un impiego. È non avere nemmeno la possibilità di iniziare.

L’intelligenza artificiale, pare, non sta “mangiando” i ruoli più pagati, quelli da manager o esperto, ma i lavori, cosiddetti, entry level. Sta divorando silenziosamente i compiti di base, quelli che per anni sono stati la palestra naturale per chi comincia: fare un report, scrivere una prima bozza, riassumere una call, buttare giù una presentazione da sistemare. Quel lavoro, che prima toccava agli stagisti, alle figure junior, ai nuovi arrivati, oggi lo fanno strumenti come ChatGpt.

Risultato? Chi è all’inizio non ha più un modo per fare pratica, per imparare, per crescere sul campo. La classica gavetta. C’è qualcosa di profondamente contraddittorio in tutto questo. Perché in teoria, l’IA ci dovrebbe aiutare a liberarci dal lavoro ripetitivo per dedicare tempo alla creatività, al pensiero critico, all’empatia. Ma se hai 23 anni hai bisogno prima di capire come si sta in azienda, come si lavora in team, come si sbaglia, come si corregge. Hai bisogno del lavoro noioso. Quello che oggi una macchina fa meglio e più in fretta. Il paradosso è che ci stiamo preoccupando che l’AI rimpiazzi i senior, mentre sta già tagliando le gambe a chi non ha ancora iniziato a correre.

E ancora: secondo il Work Trend Index 2025 di Microsoft e LinkedIn il 47% delle aziende cerca competenze IA, con ruoli emergenti come chief AI officer, trainer di algoritmi e data specialist. Tuttavia, la disoccupazione giovanile resta alta, toccando il 19% tra i 15 e i 24 anni. Le imprese faticano a trovare candidati qualificati, mentre solo l'11,4% utilizza stabilmente l'IA nei processi. Questo evidenzia un divario tra domanda e offerta di competenze digitali, lasciando molti giovani ai margini del cambiamento tecnologico. Altro paradosso: sembra essere esclusa proprio la generazione più digitale di sempre.

 

Ma c’è chi raffredda i toni, smontando (per ora) il mito dell’intelligenza artificiale come tsunami economico. Uno studio recente ha analizzato l’impatto reale dei chatbot IA su 25.000 lavoratori in Danimarca (di 11 professioni diverse). Gli autori si sono fatti una domanda semplice: l’intelligenza artificiale ha davvero migliorato la produttività, i salari, l’occupazione? La risposta è: non proprio. Nonostante gli investimenti consistenti, gli impatti economici restano minimi. I chatbot AI, dice lo studio, non hanno avuto alcun impatto significativo su stipendi o ore registrate, in nessuna professione.

Addirittura l’Economist parla già di disillusione. Per molte aziende, riporta, l’entusiasmo per le promesse dell’intelligenza artificiale generativa ha lasciato spazio all’irritazione per la difficoltà di utilizzarla in modo produttivo. Secondo S&P Global, la quota di aziende che ha abbandonato la maggior parte dei propri progetti pilota legati all’AI generativa è salita al 42%, rispetto al 17% dell’anno scorso. Il ceo di Klarna ha recentemente ammesso di essere andato troppo oltre nel sostituire il servizio clienti con l’AI. E sta ora tornando ad assumere esseri umani per quei ruoli.

Insomma, il panorama resta contradditorio e confuso. Il punto, forse, è che introdurre un’AI non basta. Serve una strategia, formazione, cultura digitale, ridisegno dei ruoli. Serve visione e pazienza. Quindi? Teniamoci strette iniziative come quelle di Unisafo, la prima “università del prosciutto”, fondata in Emilia-Romagna per formare figure professionali lungo tutta la filiera del salume più famoso del mondo. Una scuola che insegna a conoscere, valorizzare, proteggere un prodotto simbolo del made in Italy. È anche questo il futuro del lavoro per tanti giovani: non solo tecnologie da imparare, ma identità da tramandare.

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