Vitamina D, fattore di rischio cardiovascolare:
esperti italiani firmano un consenso scientifico Un documento promosso dall’Istituto Nazionale per le Ricerche
Cardiovascolari (INRC) identifica l’ipovitaminosi D come fattore di rischio
cardiovascolare modificabile. La carenza di vitamina D è associata a
ipertensione, aterosclerosi e infarto. Gli esperti propongono un approccio
clinico personalizzato alla supplementazione, superando il modello “one size
fits all”. Bologna, 14 maggio 2025 – L’ipovitaminosi
D deve essere considerata un fattore di rischio cardiovascolare
modificabile. È questo il messaggio del documento di consenso elaborato
da 31 esperti afferenti a 20 università italiane e promosso dall’Istituto
Nazionale per la Ricerca Cardiovascolare (INRC), consorzio che riunisce
atenei con competenze integrate tra ricerca clinica e di base. Pubblicato sulla
rivista internazionale Nutrients, il testo avvia un cambiamento di
paradigma nella gestione della vitamina D in ambito cardiologico, con un
approccio clinico personalizzato basato su dosaggio, monitoraggio e definizione
di target terapeutici individuali. Vitamina D e cuore – Il consensus dal titolo “A
Personalized Approach to Vitamin D Supplementation in Cardiovascular Health
Beyond the Bone” evidenzia come la vitamina D, da sempre correlata alla
salute dello scheletro, svolga un ruolo rilevante anche nel mantenimento della
salute cardiovascolare. La carenza di vitamina D è associata a un
aumento del rischio di ipertensione arteriosa, aterosclerosi, infarto
miocardico e ictus. «Le evidenze che collegano bassi livelli di vitamina D a un aumentato
rischio cardiovascolare erano già disponibili, ma frammentarie», spiega la
professoressa Anna Vittoria Mattioli (Alma Mater Studiorum - Università
di Bologna), prima firmataria del documento. «Con questo consensus – continua
Mattioli – abbiamo voluto fornire una sintesi critica e operativa, utile anche
al clinico nella pratica quotidiana. L’ipovitaminosi D va considerata un nuovo
fattore di rischio modificabile, come già accade per altri biomarcatori». Il professor Francesco Fedele (Sapienza Università di Roma),
presidente INRC, aggiunge: «Esiste una discrepanza tra le evidenze
osservazionali, che mostrano l’associazione tra ipovitaminosi D e patologie
cardiovascolari, e l’assenza di risultati conclusivi sull’efficacia clinica
della supplementazione. Da qui è nata l’esigenza di fare chiarezza con un
documento che analizzasse la letteratura e proponesse una nuova prospettiva
metodologica per studi futuri». Vitamina D: un ormone, non un integratore – Il testo chiarisce che la vitamina D non è un semplice integratore, ma un
ormone attivo su più fronti fisiopatologici, inclusi il sistema
renina-angiotensina-aldosterone (RAAS), il metabolismo lipidico, lo stato
infiammatorio e la funzione endoteliale. «Abbiamo voluto andare oltre l’osso: la vitamina D è un modulatore
sistemico e come tale deve essere valutata, dosata e utilizzata secondo logiche
terapeutiche – prosegue Fedele – e non possiamo limitarci a somministrare
dosaggi fissi a tutti: è necessario identificare i livelli basali, definire un
target terapeutico e valutare l’effetto clinico, soprattutto in soggetti ad
alto rischio, come i pazienti con insufficienza cardiaca». Il cambio di paradigma: dal “one size fits all” al “treat-to-target” I limiti degli studi precedenti sono noti alla comunità scientifica:
mancata selezione della popolazione in base al rischio cardiovascolare, assenza
di personalizzazione nei dosaggi, durata standardizzata dei trattamenti. Mattioli sottolinea: «Gli studi interventistici condotti negli anni passati
applicavano un approccio “one size fits all”, ma la risposta alla
supplementazione è influenzata da molti fattori: esposizione solare, dieta,
attività fisica, stato metabolico. Nel nostro consensus proponiamo un modello “treat-to-target”:
bisogna misurare i livelli di vitamina D del paziente, definire l’obiettivo
della terapia in caso di carenza, adattare il trattamento in base alla risposta
e monitorare nel tempo i risultati. È lo stesso principio che già
applichiamo per la gestione delle dislipidemie o della ipertensione arteriosa». Le prospettive: medicina di precisione e nuovi studi clinici Il lavoro rappresenta un importante punto di partenza, ma non di arrivo. Il
gruppo di esperti dell’INRC è già al lavoro su un nuovo studio clinico,
che coinvolgerà pazienti con insufficienza cardiaca, sia con frazione di
eiezione preservata che ridotta. «Così come la terapia marziale, con ferro, ha dato esiti positivi nei
pazienti con scompenso, anche la supplementazione mirata di vitamina D potrebbe
rivelarsi una leva terapeutica importante, con benefici concreti in termini di
risultati clinici», precisa Fedele. Il consensus rappresenta dunque un punto di svolta: si propone come base
scientifica condivisa per guidare la supplementazione di vitamina D in
campo cardiovascolare, prospettando una strategia personalizzata, che
considera la carenza basale, l'età, le comorbidità e lo stile di vita dei
pazienti, e integrando i concetti di medicina di precisione, fisiopatologia
endocrina e cardiologia preventiva. «Abbiamo applicato le nostre competenze in ambito cardiovascolare per ridefinire
l’approccio alla vitamina D e superare l’idea che sia destinata
esclusivamente a bambini, donne in menopausa e anziani per contrastare la
fragilità ossea», conclude Mattioli. |